In vicolo Ranocchi è sempre aperta la Osteria del Sole, uno dei locali pubblici più vecchi della città – Ricordi e aneddoti
Scendiamo lungo via orefici, tagliata in due dal sole. Pieghiamo a destra e ci troviamo in vicolo Ranocchi. Ancora venti metri e siamo all’Osteria del Sole, forse il più vecchio locale pubblico di Bologna.
In quello stanzone, vagamente a forma di zeta, si vende vino da almeno 540 anni. Lo conferma il gestore di adesso, un veneto giunto a Bologna trentacinque anni fa. “Un notaio mio amico – dice Luciano Spolaore – ha trovato un documento che risale al 1435 dal quale risulta appunto un passaggio di proprietà dell’Osteria del Sole. Segno che a quel tempo esisteva già come osteria”.
Entrando, sulla sinistra, spicca in mezzo a dipinti ad olio, disegni, stampe, manifesti, una copia dell’antica insegna dell’osteria, opera del Mitelli, nella quale campeggia un gran sole dardeggiante. Attorno è scritto “Il sole nel stradello de Ranocchi”. Buone frittate”. Ma adesso, all’Osteria del Sole, le frittate non si mangiano più. “Qui vendiamo soltanto vino e uova sode – dice Spolaore – e chi vuole, il mangiare se lo deve portare”.
Parla quietamente, senza accenti, ricordando gli anni passati. “Il mio locale non è mai stato un ritrovo della ‘mala’, né di prostitute.
Una volta c’erano alcuni borsaioli, ma era tutta gente direi quasi onesta, con un suo codice di lealtà. Onorava sempre i debiti, ad esempio, e quando prestavo soldi me li ridava sempre.
Ricordo anzi, venti-venticinque anni fa, che questo gruppetto un giorno era triste, con la faccia lunga. L’ indomani era la festa del Redentore, a Venezia, e loro non avevano quattrini per andarci in treno. E invece, mi dissero, a quella festa avrebbero proprio voluto andare. Così, di fronte a quella disperazione, decisi di prestare loro i soldi di cui avevano bisogno. Mi ringraziarono, commossi, e partirono.
Due giorni dopo ritornarono all’osteria. Erano felici. Ed erano anche pieni zeppi di portafogli, di penne, di borse, di catenine, di bracciali.
Sì, perché loro, alla festa del Redentore c’erano andati soltanto per borseggiare i turisti. E io che non avevo capito…E mi volevano regalare anche una penna d’oro per ricambiare la mia cortesia…”.
È una delle tante storie che nascono attorno ai tavoli della vecchia osteria, che con il passare degli anni diventano mito. “Ma una delle storie più belle – riprende Luciano Spolaore – è quella di un certo Natale, mio vecchio cliente, tuttora vivo e vegeto.
È sempre vissuto in maniera grama, in mezzo ad ogni difficoltà.
Un giorno, anni fa, era davvero disperato. Senza un lavoro, in bolletta, con una gran fame addosso, senza una donna, prese una decisione.
Si presentò alla caserma di artiglieria, chiese del colonnello comandante e quando gli fu di fronte gli disse: “Signor colonnello, voglio essere fucilato”. Disperato fino alla morte, e non avendo il coraggio di suicidarsi, aveva chiesto aiuto all’esercito. Il colonnello allora gli disse che più che fucilarlo sarebbe stato meglio rifocillarlo.
E lo tenne con sé, in caserma, per una settimana. Quando Natale uscì non pensò più alla morte. Anzi, lusingato da una donna, si comperò un mazzetto di fiori e, a piedi, andò a Monzuno, dove abitava la bella. Ma una volta là, Natale fu respinto. Disperato, ritornò con i suoi fiori appassiti a Bologna, fermandosi ad ogni osteria. Arrivò steso”.
È una delle tante storie vere dell’Osteria del Sole. Ora in vicolo Ranocchi ci vanno anche molti artisti. Ci vanno, quando sono a Bologna, Giorgio Albertazzi e Valerio Zurlini, artisti come Luciano Minguzzi, Pirro Cuniberti, Luciano De Vita. Ci vanno cantanti, critici, letterati. A tutti Luciano Spolaore racconta del cappellaio Dante, che aveva negozio, non moltissimi anni fa, proprio accanto all’osteria.
Il cappellaio, allora, aveva fatto mettere un campanello che collegava il negozio con l’osteria. Quando entrava qualcuno ‘importante’, che doveva comperare una lobbia o un cilindro, la moglie suonava, il cappellaio lasciava il suo bicchiere e correva in negozio. Poi rientrava all’osteria. Se entrava qualcuno che chiedeva un berretto, ci pensava invece la moglie.
Un’altra delle mille storie di questa osteria vecchia di cinque secoli e mezzo. Mentre parliamo con Spolaore, entrano vecchi avventori che salutano cordialmente il proprietario. Sollevano in alto il bicchiere di bianco e fanno cin cin. Nel cortiletto che si apre accanto allo stanzone di mescita, quattro o cinque vecchietti bevono, tutti compresi, il loro bicchiere. Uno – avrà settant’anni – legge, assorto, Diabolik.
“Pur essendo un’osteria tipica, autentica, non è diventata un’osteria alla moda. Così si è salvata. È rimasta popolare. E anche i quadri che vede alla parete non dicono che si tratta di un locale di artisti, anche se è frequentata da parecchi ‘grandi pennelli’. Sono tele che mi hanno dato gli avventori in cambio di vino. Tutto qui”.Di tanto in tanto entra una giovane donna e chiede un bicchiere di vino.
“Grandi difficoltà – riprende Spolaore – le avemmo durante la guerra. Ci davano il vino razionato, che doveva durare un mese. In due giorni era tutto finito. Furono tempi molto tristi, quelli”. Ben differenti da quelli dei primi anni del secolo quando la piazza Maggiore si riempiva di carri di buoi che tiravano le classiche ‘castellate’, tutte destinate all’Osteria del Sole.
Entrano due giovani. Uno domanda un bicchiere di vino. “Uno anche a lei?”, chiede l’oste all’altro. No, grazie, risponde – io sono astemio. L’oste lo guarda male e gli volta le spalle.
Di Lamberto Sapori tratto dal Resto del Carlino
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